le cose perfette non ci portano fortuna

No, perché poi io non vi ho mai raccontato cosa mi è successo sabato scorso.
Non il 27 novembre, giorno del mio bel ventisettesimo compleanno, ma sabato 20 novembre.
Per essere fedeli alla storia bisognerebbe cominciare da venerdì sera, quando, una volta chiuso il pub, ho portato alla mia macchina il mio amato e Mattia, il cuoco, che abita in via Porpora e che accompagnamo spesso a casa.

I. avrebbe dormito da me, per cui gli ho consigliato di lasciare la macchina al pub.
Non gliel'ho consigliato a caso: il giorno seguente, sabato 20 novembre, avremmo avuto una sorta di riunionescuolasulebirre dello staff, e saremmo entrambi dovuti ritornare al locale per l'ora di pranzo, per fare colazione/pranzo con tutti gli altri e discutere sulle varie birre e su alcune questioni interne.

Dicevo: I., io e Mattia ci dirigiamo alla mia auto, parcheggiata rigorosamente da cinque giorni in via Tabacchi.
Arriviamo ed esulto per la mancata multa che grazie a Dio per questa volta non mi hanno messo.
Il mio entusiasmo dura un decimo di secondo e si infrange poco dopo quando, entrata in auto per avviarla, mi rendo conto che la macchina non parte.
Ferma.
Tutto fermo.
Non si avviava nemmeno il motorino di avviamento.

Puttana eva troia.

E giuro che queste sono le parole più trasferibili sul blog che io abbia detto in quel momento.

Mattia e I. mi aiutano a spingere l'auto, alle tre del mattino di un freddo venerdì sera, in una via lì accanto, perché in via Tabacchi al sabato c'è il mercato e me l'avrebbero rimossa.
Spostiamo l'auto e andiamo a recuperare quella di I., in soldoni siamo andati a nanna quasi alle quattro del mattino, sapendo che la sveglia il giorno dopo sarebbe suonata alle undici e che la giornata per me, soprattutto per me, non sarebbe stata per nulla facile.

Perché?
Semplice, perché i miei genitori, con uno dei miei due simpaticissimi fratelli, sarebbero venuti da Melzo con furore a Milano, a casa mia, a portarmi il frigorifero nuovo.
Potevano scegliere altro giorno? No, figuriamoci, hanno scelto proprio l'unico giorno in cui a mezzogiorno avevo un impegno dall'altra parte di Milano (la riunione al pub di cui sopra) e in cui alle 19 iniziavo a lavorare al pub.
Le mie indicazioni, dopo l'annuncio del loro arrivo a Milano, erano state più che precise:
"Padre, sabato per me è un po' un casino: ho una riunione al pub alle 12 che non durerà poco e poi la sera lavoro lì"
Mio padre:
"Sì, ok, ma noi possiamo venire solo sabato pomeriggio..."
"Ok, allora venite sabato pomeriggio, ma sappiate che non avrò molto tempo per fare la padrona di casa e soprattutto per starvi dietro..."
(e pensate che ancora non avevo la macchina a terra....)

Tant'é.
Avevo ben detto ai miei genitori di non farsi vedere prima delle tre e mezza.
Tre e mezza.
Avevo calcolato tutto nei minimi dettagli: "ore 12 appuntamento al pub, ore 13 - come minimo - inizio riunione, ore 15 mi stacco dal pub e alle 15.30 sono a casa, con calma".

(il pub è in san Gottardo, casa mia in zona Isola).

Arriviamo alla riunione un po' arruffati e stanchi; nemmeno il tempo di iniziare a ordinare la colazione all'inglese (buonissima!) e a bere un caffé chiacchierando, che sento il mio telefono squillare.
Guardo il display e trovo tre chiamate senza risposta, dal telefonino di mio padre.
Guardo l'orologio e sono le 14.00, impossibile che siano già qui.

Mio padre mi dice che sono partiti da cinque minuti.

....
....
....

Ora: forse non molti di voi hanno presente dove sia Melzo (dopo Segrate, verso Pioltello e Cernusco)
e forse altrettanti di voi non hanno idea di dove sia il quartiere Isola (dopo Loreto, traversa di Melchiorre Gioia), ma credetemi: casa mia Melzo dista da casa mia Milano almeno venti chilometri.
E di sabato pomeriggio dopo pranzo, quante persone ci saranno in giro? Nessuna.
E di sabato pomeriggio, con in giro nessuno, quanto ci si mette ad arrivare da me a Milano? VENTIMINUTIVENTICRISTODIDIO!

Infatti, urlo con mio padre al telefono, dicendogli che mi sarebbe toccato mollare lì la riunione e correre a casa, perché il tempo che ci avrei messo io ad attraversare Milano, sarebbe stato lo stesso che loro ci avrebbero messo ad arrivare sotto casa mia.

Me ne vado imbestialita dalla riunione scusandomi con i colleghi (e credetemi, anche se i più sono amici e altri piacevoli conoscenti, quando stai insieme al gestore del locale, non è mai così facile fare quella che prende e va...).

Esco dal pub e ovviamente mi rendo conto che sono a piedi visto che l'auto è ferma, così rientro e I. mi presta la sua auto. Automatica.
Mai guidato un auto automatica in vita mia... il resto si fa da sé.

Sono quasi in piazza cinque giornate quando come in un flash mi rendo conto che ho dimenticato le chiavi di casa a casa e che - sfiga vuole - non c'è nessuno dei miei tre coinquilini in casa.
Chiamo Stefania e le chiedo se per caso Ale, il suo fidanzato romano che ha la gelateria in piazzale Lagosta, è al lavoro e ha un doppione delle chiavi.
Mi dice che sì, le chiavi le avrebbe anche, ma Ale e Ste sono a pranzo a casa di lui, per cui mi tocca andare da loro a prenderle.
Non so dove cazzo sia casa di lui. Cioè: conosco la zona ma in macchina non sono così smaliziata a Milano, specie in zone dove se sbagli una via o una traversa, non ci ritrovi più.
MI metto a smanettare con il navigatore della macchina di I. e trovo la via.
Arrivo sotto casa del gelataio, prendo le chiavi al volo e intanto corro in auto per rispondere al telefono, dove dall'altra parte della cornetta mio fratello mi avvisa che loro, comodi comodi, sono già sotto casa mia da cinque minuti.


Sto impazzendo.
Mi rendo conto che di sangue al cervello me ne va ben poco e che di aria ai polmoni me ne arriva ancora meno.
Cerco di non sbottare lì al telefono, respiro bene e trattengo l'ira e il nervosismo che mi stanno divorando.


Arrivo sotto casa. Piove, trovo parcheggio lontano e per non stare ad impazzire ulteriormente lascio la macchina automaticanonmia lì.

Vado incontro ai miei.
Mio padre nemmeno mi guarda in faccia per come gli ho risposto prima al telefono.
Mio fratello è per i fatti suoi come al solito.
Mia madre è tutta premurosa e non appena ci ritroviamo da sole ha il coraggio di guardami e dirmi: 'Sei arrabbiata?'.

sono le 14.35
e sì, cristo, sono furiosa.
sono furiosa perché se avessi avuto un appuntamento di lavoro (che comunque lo era), non sarei potuta scappare all'improvviso un'ora prima.
sono furiosa perché la mentalità melzese o di paese non  mi è mai stata stretta, ma così, con i miei che devono andare a Milano come fosse la trasferta assassina della vita, e si preparano alle 14 per venire da me alle 15.30, è troppo.
e sarebbe troppo per chiunque, e infatti lo è stato anche per me.
lo è stato anche per me quando in casa, mentre mio padre mi montava lo specchio in camera (perché sono convinti che io debba avere uno specchio in camera) e mi rimproverava per come scopavo i calcinacci dei buchi nei muri che erano caduti a terra, mi sono girata verso tutta l'allegra famiglia e ho annunciato: 'Voglio che ve ne andiate di qui il prima possibile.'

Io, non ho mai detti niente ai miei di così offensivo.
E non erano le parole. Era l'odio nei mie occhi.
E l'hanno capito.

E non va bene.
perché se ti dico tre e mezza, tre e mezza devono essere.
Se ti dico che ci metti venti minuti ad arrivare da me, devi partire alle tre.
Non devi partire alle due perché io abito a Milano e chissà quanto tempo ci si mette.
Te l'ho detto io: ci metti venti minuti.
No, loro non mi devono ascoltare e mi devono far vivere tutto il resto della giornata con il magone che si divide in due: una parte per il nervoso e una parte per il dispiacere.

E poi non è che finisce così.
Perché mentre loro se ne vanno offesi, io prendo l'auto e mi dirigo verso il pub, perché la sera avrei lavorato. E succede che per il nervoso non riesco a far partire la macchina automatica di I. e che una volta partita mi ritrovo in via Beatrice D'Este con uno in moto dietro di me che per una frenata all'ultimo sbanda e con l'asfalto bagnato dalla pioggia slitta e cade con un Boom! tremendo.

E allora, tu volontaria della Croce Bianca di Melzo, che vuoi fare, non ti fermi?
certo che ti fermi. E scendi. E gli corri incontro con l'auto automatica che va avanti da sola perché non l'hai messa sul comando giusto. E quindi cambi rotta e corri incontro alla macchina, recuperandola in tempo e fermandola definitivamente. E poi allora sì che puoi dirigerti in tutta fretta verso il motociclista peruviano che sorride e che ti sembra la persona più bella del mondo, in quel momento.
E allora gli tieni fermo il capo, impedisci a chi sta intorno di fargli togliere il casco, fai amicizia con altri fermi lì come te, tutti volontari di altre sezioni, e aspetti, sotto la pioggia battente, che l'ambulanza arrivi il più in fretta possibile.
E non perché lui è grave.
Ma perché tu non ce la fai più.

E andrai avanti a non farcela più tutto il giorno.

Commenti

  1. lo so che sono perfido, ma mi hai fatto ridere davvero tanto, ora però vai a scusarti con i tuoi :)

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  2. infatti sono a melzo city: venerdì in famiglia ;)

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