that's the time, I love the best


Va be’ non ve l’avevo ancora detto ma forse è arrivato il momento. Nel giro di un mese ho preso tre grandi decisioni. Tre grandi decisioni che mi cambieranno un po’ la vita futura. 

1. A fine anno, dopo nove anni, lascio la redazione.
2. Del Piero ha dato l’addio ufficiale alla Giuventus. A inizio stagione, dopo tutta la vita, smetterò per la prima volta dopo ventiblabla anni di interessarmi del mio calcio.
3. Da un mese suono la Timba nei M. S.

Parliamo di quella più seria: io suono.
Io che ho sempre alzato gli occhi al cielo bestemmiando di noia ogni volta che il mio ex ascoltava una canzone e mi diceva ‘qui l’arrangiamento non funziona’, ‘qui l’accordo è fatto male’, ‘qui manca il groove’. Io che ho sempre voluto l’orecchio vergine, senza saperne troppo di musica per poter godere di tutte le canzoni del mondo. Io che arrivo da una famiglia di quasi musicisti. Io che sono cresciuta con in casa mille clarinetti e un pianoforte che usavo come mensola. Io che ho preso uno schiaffo da mio fratello perché lo prendevo in giro quando mi insegnava solfeggio e lo imitavo facendogli il verso. Io che staccavo il peso del metronomo per vederlo andare a mille all'ora e mia madre mi dava una sberla perché ‘non è un giocattolo’. Io che spezzavo le ance del clarinetto di mio fratello perché mi divertivo. Io che stavo uscendo da Daminelli Pianoforti con in mano un violino e alla frase di mia madre ‘Dani sei sicura?’ mi sono girata e l’ho rimesso al suo posto, uscendo dal negozio con la testa bassa. Io che alle medie quando suonavo il piffero lo suonavo solamente per poi innondare i miei compagni di saliva e condensa che si accumulava dentro al flauto. Io che per anni, vedendo l’altro mio fratello suonare il flauto traverso ho cercato di capire soltanto come si facesse a tirare fuori il suono e non ci sono mai riuscita, bollandomi da sola come deficiente. Io che nemmeno ‘Amici come prima’ e ‘La canzone del sole’ sono riuscita ad imparare a suonare con la chitarra. Io che, dopo mezz’ora che parlo di musica, mi chiedono ‘Cosa suoni?’ rispondo schifata e snob ‘Ma niente, ovvio. Io non voglio imparare a suonare. Io voglio la musica così com’è’.

Ecco, io suono la Timba. Che è una roba così:





E sapete cosa suono? Ritmi sudamericani. Io non sopporto i ritmi sudamericani. Io non sopporto il reggae. Io tifo per l'Argentina, non per il Brasile.
E invece suono nei Mitoka Samba e non sono mai stata così coinvolta prima. E’ iniziato tutto durante la manifestazione del 25 aprile: “Dani raggiungici, siamo dietro ai Mitoka’. 

MITOKA CHE?

Raggiungo le amiche. Stanno dietro a una quindicina di persone vestite di bianco che suonano tamburi, tamburelli, campane e robe varie. E mentre suonano camminano. E mentre camminano ballano. E mentre ballano ridono. E mentre ridono si guardano. E allora pensi che accada ancora dell’altro, invece non accade più nulla, ma sei già innamorato di tutto questo che nemmeno te ne accorgi. 

Una di loro, una dei Mitoka, si gira e saluta una mia amica. Ci invita ad andare ad una lezione prova. Ci andiamo. Ci presentiamo, a modo nostro e solo nostro. Ci sediamo e osserviamo l’orchestra Junior provare. Terminano e l’insegnante ci chiede di avvicinarci allo strumento che più ci è piaciuto. Ed ecco che la Timba mi chiama. Ed io rispondo. Me la metto addosso, con un’imbracatura da paracadutista me l’assicuro alla vita, sotto l’ombelico, e ci appoggio le mani sopra. La tocco. Mi tocca. 
Il maestro è bravo e simpatico, molto autorevole ma ironico. Dopo cinque minuti abbozziamo già una mezza cosa tutti insieme. E rido. E mi muovo. E sento il ritmo che tanto mi faceva cagare. E mi piace, dannazione. E’ un piacere anche se mi rendo conto che l’unica che suona la Timba sono io. Da sola. Tutti gli altri suonano lo stesso strumento (dal tamburin, all’agogo, dal rullante al surdo) in gruppo. Io no. Maddai?

Io e Paola ci siamo ritornate. Abbiamo pagato il nostro mese di iscrizione, l’ultimo della stagione, e abbiamo fatto le prove con loro per tutto giugno. Con loro, i Junior, che suonano da settembre, ma che ci hanno accolte come fossimo sempre state parte del gruppo. E un po’ ci sentiamo così.
E allora arriva la voglia che sia presto giovedì. Giovedì per andare in periferia a Milano, imbracciare una Timba e sfogare tutte le mie ossessioni. Dal lavoro al Del Piero che se ne va. Da mia madre con i piedi gonfi che sembra la Sora Lella, ai miei fratelli che si preoccupano che io stia bene ma non del perché. Da mio nipote che non vedo da mesi a mio padre che sta meglio. Dal mio lavoro ancora che non mi molla mai al ruolo che ho io ovunque vada. Dal mio cinismo che oramai non è più una maschera ma fa parte di me a quello che ne consegue. Io, distaccata e disillusa, ho messo il cuore su una Timba e tutto ciò è così evidente che mi spaventa.

E il maestro è sempre lì, si vede che gli piace insegnare, stare lì... è un po' pavone ma è talmente capace che questo rimane solo un'esservazione. Ci dà sicurezza, non ci molla mai con gli occhi. Nemmeno quando a me scappa una bestemmia sorda e mi becca in pieno. Penso sia nato per insegnare.

E allora eccoci sabato scorso alla festa annuale. Festa che si conclude sì con l’esibizione dell’Orchestra Senior, ma anche con il debutto dell’Orchestra Junior. Ci capiamo, sì? DE BUT TO. De che? Dei JUNIOR. E io che so’? JUNIOR. Super JUNIOR. Da quattro settimane. Cristo.
La giornata si svolge tra laboratori di strumenti musicali, saponette con la lana, birre in lattina, vendita di roba da mangiare (che alcuni chiamano pappa con mio sommo sbigottimento), partite a calcio balilla, zanzare, zanzare, sorrisi, zanzare, grattate e bella gente. Poi arriva il momento. Tocca ai Junior, chiamati a gran voce nello spazio interno per la loro esibizione. E’? Tocca a noi. Tocca a me e alla mia Timba. 

Mi accerto che un senior suonatore di Timba mi presti la sua cinghia. La provo, va a pennello, non devo nemmeno regolarla. Provo ad indossare lo strumento. Mi tremano le gambe. Mi sudano gli stinchi e le cosce dove appoggia il busto della Timba. La saliva non c’è più. 
Il maestro inizia, e noi con lui. Poi arriva il momento.
Il maestro fa segno di chiudere - non saprei ripetervelo, fa un sacco di segni con le mani per chiamare gli stacchi e non c'ho ancora capito una sega -, ci fa segno che non dobbiamo suonare perché tocca ai tamburin lì davanti fare il loro assolo. Assolo? Cosa? Chi? Perché? Bravi. Non sapevo ci fosse un assolo di tamburin nel pezzo, non me ne ero mai accorta. Il maestro presenta i tamburin ognuno con il loro nome, scatta un grande applauso. Applauso? Nome? NOME? 

‘Fanculo. Magari mi sbaglio. Magari lo fa solo con loro. Sicuramente lo fa solo con loro, anche perché non mi sembravano stupiti come me, i miei amici tamburin.

Col cazzo. Il maestro chiama i rullanti. E loro rispondo. E lui li presenta, a gran voce, sopra un grande applauso.
Tutti intorno sono eccitati. Tutti tranne me e la mia faccia. Io sono pietrificata, il sangue ha smesso di circolare e sento freddo, manco stesso morendo. O forse è proprio così. La mia faccia invece è crepata, nel centro. E dalla crepa escono dei VAFFANCULO enormi.
Maestro, simpatico come la sabbia nelle mutande, specie in quel momento, mi guarda perché ha capito che ho capito. 
Io lo guardo e scuoto la testa facendo segno di no. Ripetutamente. 
Lui mi guarda e annuisce, facendo dei grandi Sì con la sua, di testa.
Ripetiamo questa mossa ridicola velocemente per tre volte, finché non fa il giro, si avvicina a me e nell’orecchio mi sussurra: ‘Tranquilla, non ti lascio da sola’.

Da sola? Mavaffanculo.

Faccio sì con la testa anche se in realtà non mi si muove più un muscolo del corpo.
Negli occhi ho il terrore di una bambina davanti al bau bau.
‘Fanculo.

Tocca a me e ovviamente nemmeno me ne accorgo. Il maestro in una frazione di secondo si avvicina ad un surdo e su quello strumento mima quello che devo fare, che è l’unica cosa che so fare, semplice e facile facile.
Ci sono cinque secondi di vuoto, di buco sonoro, di silenzio assordante. Ed è perché io non ho capito che tocca a me e non capito che cosa cazzo devo fare. Quando lo capisco il maestro un po’ ride e io alzo le spalle come per dire ‘a vabbe’ e dimmelo subito no?’.
Da sola, io la Timba e basta, nessun altro strumento. Io da sola con le mie mani gonfie per il sangue che pulsa alle dita. Io e la mia Timba che spesso è sorda perché ancora non ho capito come si fa a mettere bene le mani senza farsi male e a far uscire un cazzo di suono decente che metta d’accordo tutti. E invece il suono esce. Poco pulito, ma esce. Mi sembra un’infinità ma per dieci, forse quindici secondi ho fatto il mio assolo guardando in faccia tutti e sorridendo come se quella cosa la sapessi fare da quando sono nata, come se non avessi mai fatto altro in vita mia.
Nel frattempo sento la voce del maestro: ‘E’ con noi solo da quattro settimane, un applauso a D. alla Timba’. Lo odiavo fino ad un minuto fa, ora è bello come il sole.

E tripudio sia, coriandoli, trombe, stelle filanti, lo stadio impazzito, cori… Esagero, certo, ma nella mia testa è stato così.
Inutile dire che da quel momento, inaspettato e arrivato troppo in fretta, è stato solo divertimento ed emozione allo stato puro.
Eravamo un treno lanciato a mille all'ora, precisi, carichi e felici, tutti insieme a suonare ‘sta cazzo di samba che tanto odiavo. Ad un certo punto ho sentito come se qualcuno ci stesse cantando sopra. Non era così, ma l’armonia del suono mi ha fatto vedere il maestro come se fosse la Madonna. E forse è così.

Grazie a lui, ai Mitoka e ai miei compagni di viaggio, io suono.


Commenti

  1. Tremendamente bello, grande Dani!
    (che sei un fenomeno si sa)
    S.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Letto tutto di un fiato stamattina. Le stesse sensazioni che provai io la prima volta ma con un cajon. Che bel pezzo Dani! W la Timba

      Elimina

Posta un commento