avrò la faccia più dura...


Non so da dove cominciare. Facciamo come quando lasci un fidanzato che ci pensi e ci ripensi e poi sputi il rospo nel peggiore dei modi perché regredisci con il cervello fino a tornare ad avere due anni.  
Okay lo dico: a fine anno lascio il lavoro. Lascio la redazione, lascio quella che per otto anni è stata la mia casa, la mia cucina, la mia scrivania, la mia macchina del caffé, il mio bagno, il mi palazzo, la mia entrata, le mie scale, le mie porte, le mie finestre, il mio portinaio. La mia vita. Per me che di anni ne ho ventotto, otto passati a lavorare qui, sono davvero tutto. E’ forse per questo che non mi sono mai trovata con i miei coetanei: mentre voi dovevate ancora terminare l’università e pensavate a fare l’Erasmus a Siviglia, io andavo in giro a intervistare Ornella Vanoni, Ligabue e Capossela, mi smazzavo concerti tutte le sere, andavo a fare la giurata ai concorsi a Roma, andavo all’estero alle prime dei grandi artisti stranieri, rifiutavo di apparire in televisione alle finali di X Factor e al Festival di Sanremo e lavoravo anche in un’etichetta discografica, facendo la tour manager a tempo perso. 
Lascio. Lascio senza avere trovato altro perché è facile mollare qualcosa dicendo “ho trovato di meglio”, più difficile e più doloroso è dire a qualcuno “ti lascio perché voglio lasciare te, e basta”. Se non procurassi dolore non sarei io. E quindi eccomi all’abbandono del lavoro della mia vita.
Che negli anni, della mia vita lo è diventato sempre meno. Troppo veloce tutto e tutti quanti intorno a me. Forse aver cominciato quasi dieci anni fa quando era già tanto se avevi un profilo finto su MySpace, è stato alla lunga rovinoso. Forse adesso, è tutto troppo lontano da me. Adesso che in due anni è cambiato tutto, che se non hai Facebook e Twitter non sei nessuno, che ai concerti ci si va solo in cambio di una recensione, che le dirette dai live le si fa via Twitter, che le serate di Sanremo si commentano con l’iPhone, che se vai ad intervistare un artista devi sucarti le chiacchiere tra lui e i giornalisti fighi di quello che si scrivono a vicenda sui social, per me non c’è più spazio. E forse è colpa mia, colpa mia che rifiuto tutto questo anziché allinearmi con i tempi. Ma io non sono una di quarantacinque anni che nei social riscopre la nuova vita ed impazzisce per ‘ste cose. Io sono un po’ come quello abituato alle videocassette che si lamenta che in giro non vendono più videoregistratori, e allora anziché fare il digitale terrestre e comprare il lettore dvd non guarda più la televisione.

Non rido più. Io ho imparato a fare giornalismo con tutta l’umiltà del mondo, con la testa sempre alta, attenta a tutto, innamorata delle finezze e dei dettagli che rendono a volte questo mestiere uno dei più belli del mondo. E allora vedo arrivare i nuovi stagisti, che rispondono che questo non gli piace, che quello non lo conosco, che di quell’altro loro non sanno nulla e quindi non possono lavoraci sopra perché ‘non è roba loro’. E se ne stanno lì, senza la curiosità che a me invece divorava, che non mi faceva dormire la notte. Rimangono lì senza quel batticuore delle prime interviste, senza quel prendersi responsabilità sulla buona riuscita di un progetto, che tanto “sono qui per poche lire e se mi gira mollo questo posto e me ne vado in un altro”. 
Io no. Io, stronza, me ne sono innamorata di questo posto, gli ho voluto bene e l’ho difeso con i denti sempre e comunque. Ci ho messo l’anima, le idee, l’impegno, senza ritorno economico. Mi sono presa le mie soddisfazioni lavorative (quelle che per altri sono cose normali o addirittura noia), ho goduto fisicamente ed emotivamente ad ogni busta aperta a mio nome con dentro un nuovo disco, che fosse quello della vita o quello più brutto dell’anno. Ho allacciato rapporti unici con uffici stampa straordinari quando si sa bene che tra giornalisti e pr non scorre buon sangue. Ho sempre giocato in seconda linea perché penso che ognuno debba conoscere i propri limiti e prima di farsi fregare debba sapere dove posizionarsi al meglio, e io so di essere un’ottima spalla per tutto, ma non fatemi fare la parte della protagonista. Non sono mai stata sicura di nulla nella mia vita di come sono sicura di sapere fare bene quello che faccio e aver avuto uno dei migliori maestri. 
Un maestro che quando gli ho detto che avrei mollato il colpo, mi ha sorriso e dopo due giorni mi a chiamata nel suo ufficio per capire ‘cos’altro potevamo fare’. E io mollo perché non ce la faccio più, perché per quanto non ne abbia mai fatto una questione economica (che poi siam tutti sulla stessa barca, qui), quando viene a meno la credibilità professionale non c’è molto altro da fare. Quando qualcuno in otto anni non ha capito quanto valgo e cerca di mettermi nell’angolino, perché è convinto che io ami talmente tanto questo posto da non lasciarlo mai, allora bisogna dirgli che sta sbagliando. Sbagliando di grosso. Almeno su di me. Che non sono come voi, questo è poco ma sicuro. Cosa me ne faccio dell’essere diversa da voi e senza più un lavoro? Non lo so, di certo non voglio le vostre pacche sulle spalle del tipo “guarda anche io, non fosse per il lavoro mollerei subito i social” oppure “come ti invidio, cambierei anche io ma sai, il mutuo”. E non voglio nemmeno sentire commenti del tipo "sì sì, fai la persona originale e unica che intanto il mondo passa e tu rimane indietro con il culo a terra". Ecco, ‘ste cose, sacro sante e fondamentali, tenetevele lì. Volere è potere. Non mi sento sfigata, mi sento libera. E non è un gesto plateale che qualcuno scorderà. E’ la mia vita e chi vuole se la tiene a mente, non ho mai fatto nulla per costringere qualcuno a pensare bene di me, e non inizierò certo adesso. Anzi.



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