what a wonderful world



Sabato siamo riusciti finalmente a festeggiare i quarant’anni di matrimonio dei miei. Belli loro, come due pappagallini in amore. Poi c’erano anche i miei fratelli e le rispettive, più quel nano di mio nipote che è proprio un bel fighetto. Nota a margine: sono stata semi-rimproverata per essermi scordata il compleanno di mia cognata, madre di mio di nipote, moglie di mio fratello soprannominato Ponch.


Embè? E chi cazzo la frequenta, scusatemi, mia cognata? Chi ci è mai uscita a bere una birra e a fare due chiacchiere? Non io, di certo. Che tra l’altro mi piace anche, e molto direi. E’ tosta e in gamba, ma non siamo mai andate oltre ai convenievoli. E quindi? Gli auguri? E che cazzo ne so. Poi è nata a luglio, i compleanni che cadono da giugno ad agosto non me li ricordo. Mai. Quindi gnente, auguri non pervenuti. Scatta l’smscodatralegambe con due mesi di ritardo e pace fatta. Poi, se mi avessero ringraziata del regalo che ho portato a loro e del furgone spaziale che ho regalato a mio nipote di ritorno dalla Cornovaglia, magari avrei gradito. Ma non importa, quella stronza sono io. Se io mi dimentico sono quella che non gliene fotte un cazzo, se si dimenticano di ringraziare loro, i grandi, allora è colpa che sono sempre di fretta e impegnati e “sai come siamo io e tuo fratello, abbiamo la testa fra le nuvole”.
Ambè.

Comunque. La giornata è iniziata strana, con il cavaliere mascherato che si aggirava tra gli armadi e se n’è uscito ad un certo punto con un camicia. Nera. Della Polo. Lo guardo stranita: 
“Che ci fai tu con la camicia?” 
“Be’, ho visto il ristorante su Internet, penso sia gradita” 
“Sì ma tu puoi fare quello che vuoi, puoi venire anche con la maglietta del pub, se ti pare” 
“Tranquilla, va bene così”.

Ennò, caro cavaliere! Se mi metti la camicia, cosa apprezzabile, fai che sia almeno pulita. Pulita lo era, anche profumata, ma aveva addosso una quantità di peli (polvere etc) da far paura, cosa che mi ha costretta, come una vera fidanzatina rompi cazzo, a rincorrerlo tutto il giorno con le mani bagnate cercando di rimediare al danno.

Vebbe’, usciamo di casa in orario, per ora non mi posso lamentare.
Per il resto della giornata il cavaliere non ha quasi proferito parole e si è trascinato ovunque andassimo per via di un mal di schiena fulmineo e di un sonno che non gli dava pace (era rientrato dal pub alle 4 e alle 9 è suonata la sveglia).

Siamo stati sul lago Maggiore, abbiamo mangiato splendidamente ad Arona, e ho subito i costanti commenti acidi dei miei fratelli e delle loro mogli su camerieri, abitanti del paese, clienti del ristorante, bigliettai dei traghetti e via discorrendo. Ho rollato una sigaretta e ancora, per l’ennesima volta, mi sono sentita dare della poveraccia. Tra le righe è, sempre tra le righe.
Siamo andati da Arona ad Angera. Quaranta chilometri. Bella Angera, direte voi. Ad averla vista, potrei confermarvelo, peccato che una volta lì abbiamo preso il traghetto perché in nipotino ci voleva salire. Per andare dove, il traghetto? Semplice, sulla sponda di fronte. E cosa c’è sulla sponda di fronte? Arona. Cinque minuti di battello per ritornare dove eravamo al ristorante, fare un giro di dieci minuti in un posto dove eravamo appena stati e poi riprendere l’imbarcazione per tornare ad Angera, dove avevamo l’auto. Evviva.

La giornata si è conclusa in fretta. I miei li ho visti felici, e questa è l’unica cosa che per me conta. E poi sono belli, cazzo. Anche quando sembrano Falcone e Borsellino.



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